Dal Fronte Moscovita

giovedì, agosto 31, 2006

Bolscevico

Una cosa sta succedendo adesso

C’è la moglie di Putin qui, con una guardia del corpo. Sta provando un divano Baxter.


In questi giorni non succede niente

Il tempo è brutto con pioggerella all’inglese. In metrò si suda e al lavoro perdo le giornate senza aver molto da fare. Nel week-end Mosca compie 859 anni.

lunedì, agosto 28, 2006

Un pomeriggio in piazzetta, ci sono un castellino, una chiesetta e una piramide rossa.

Crucco in poliedriche interpretazioni


















domenica, agosto 27, 2006

Notte Pulp

Dopo un mese di ospitalità, Mosca decide di rivelarci il suo lato oscuro, la zona d’ombra. E lo fa mettendoci in mezzo a una serie di eventi difficili da dimenticare. Quello che sto per scrivere non definisce Mosca, ne definisce una parte un po’ meno rosea dal punto di vista di una specie di turista quale sono.

La giornata comincia in modo shakespeariano, con una premonizione fortemente metaforica della serata. Sulla via per il lavoro, sui gradini di un ristorante accanto alla metrò Novoslobodskaya, giace un cadavere. Dal tendone utilizzato come sudario sbucano mani e braccia, un membro della milizia gli passeggia accanto meccanicamente. Nessuna transenna. I passanti sembrano non accorgersi che c’è un morto, un morto per strada, e continuano la loro vita, anche tagliando il percorso e passandogli a pochi centimetri dal braccio sinistro. Non me ne sarei mai accorto se non mi fossi girato per caso. La situazione sembrava normalissima.

Supero un manipolo di forze speciali del Ministero degli Interni (fanno paura) e mi reco al lavoro.

Questo trascorre liscio liscio, così alle nove siamo di nuovo a casa con un polletto arrosto preso al chiosco, sottomesso da una vagonata di salse caucasiche. Ringraziamo il chiosco 24 ore dell’Uomo senza Sonno (a qualsiasi ora del giorno e della notte è lui a lavorare) e cominciamo a prepararci per uscire. Il mio computer canta Rocket Man di Elton John, facendoci appurare che in effetti anche noi siamo tre rocket men; tutto il discorso sul pianeta Mosca torna.

Alberto propone un posto che pare molto bello, il Gazgolder. Già il suono del nome si fa onore, così usciamo. Fermiamo una macchina guidata da uno smilzo coi baffi, l’unico ad accettare solo 200 rubli. Quelli di prima ne volevano minimo 250 se non 300 e al nostro rifiuto se ne sono andati offesi.

Il Gazgolder si trova in una traversa di una traversa della circonvallazione, vicino alla stazione del treno Kurskaya. Sono le 1:30 della notte e la macchina, cartina alla mano, sfreccia sull’anello, poi volta a destra, si infila in una piccola autostrada sorvolata da cavalcavia, poi gira di nuovo, si inserisce in un vicolo buio. Non contenta, gira ancora una volta, portandoci in un vicolo bagnato e sconnesso, incorniciato da vecchie fabbriche ammaccate. È buio, non c’è in giro nessuno, solo due vecchie Lada campeggiano silenziose nel tetro ambiente.

Scendiamo dalla macchina alla ricerca del numero 5, trovando solo un vecchio barbone dalla faccia di cartapesta marrone, che inveisce biascicando contro l’aria. Poco più in là un parente dell’Uomo senza Sonno vende le stesse cose in un chiosco stile Lou’s Bar di Ritorno al Futuro. Chiediamo informazioni ma lui sembra non saperne nulla. Ci indica di andare a sinistra, ma siamo certi che non abbia senso. Procediamo. Raggiungiamo un localino incredibilmente folcloristico con facciata in neon e legno, con una coppietta di mezza età che chiacchiera davanti all’entrata. Chiediamo a loro. Lui è di un’ebbrezza potenzialmente amichevole, gli do due occhiate complici quando biascica un battuta in russo sulla sua donna e me lo faccio amico, senza naturalmente capire cos’abbia detto.

Il Gazgolder è senza dubbio là dove ci aveva detto il caucasico kitsch. Dietrofront.

Ci imbattiamo finalmente in un vicolo ancora più buio, ma paragonabile a un luogo por la fiesta visto il viavai di auto piuttosto belle. Seguiamo lo strombettio di clacson e la fila di macchinoni, convinti di esserci, finalmente, alle due del mattino, al benedetto Gazgolder. Da dietro la grossa BMW inizio a scorgere una massa discretamente grande di figure umane, un po’ nell’ombra e un po’ illuminate dai fari. Supero una pozzanghera evitando di farmi schiacciare da una macchina e raggiungo la massa di persone. Neanche l’ombra di una discoteca, solo tante ragazze. Sono tutte vestite un po’ male. Si vede che tentano di essere sexy e femminili, ma qualcosa non mi quadra avendo visto come vanno le persone a ballare. Fendo la folla di ragazze e con un mezzo stupore vedo che è solo una fila di persone. Subito dietro non c’è nulla. Altre pozzanghere, fabbriche tenute insieme per Provvidenza e alberi neri. Buio.

Mi guardo indietro e ho come la sensazione che qualcosa stia succedendo o sia appena accaduta. C’era una sorta di organizzazione nella disposizione delle persone. Il cordone di ragazze che ho superato era messo come se queste stessero osservando qualcosa che stava avendo luogo davanti a loro, esattamente dove –con una sicurezza da chi non vuole arrivare timido come un turista- siamo passati noi. Una rissa che si è fermata per caso esattamente in quel momento? Cosa sta succedendo?

Chiediamo a un guardiano notturno della fabbrica più vicina che ci dice di uscire dalla via per trovare la discoteca. A questo punto non capiamo più nulla. Torniamo verso il ring di persone. Lentamente le cose si fanno chiare, molto più chiare. La BMW di prima si è fermata davanti alle ragazze e le sta illuminando coi fari. Le ragazze sono più giovani di me, sono prostitute. E lo spettacolo non lo stanno guardando, esse lo sono. Passiamo in silenzio, stavolta fingendo la sicurezza di prima, perchè ci troviamo esattamente dove nessuno straniero dovrebbe trovarsi. Un bordello all’aperto. Prostitute e papponi. Clienti in macchinoni. Buio. Pozzanghere, 17°C, 77% di umidità.

Torniamo davanti al clone del Lou’s Bar. I barboni sono diventati due e parlano con un intermediario invisibile fra loro. Hanno i riflessi lenti e la luce li evita. Mi fanno impressione e pietà. Andiamo avanti, imbocchiamo un sottopassaggio di piastrelle verde acido. Il passaggio è lungo e in fondo vediamo un corpo disteso per terra. Tutti ripensiamo a stamattina, ma è solo un altro barbone che dorme sul pavimento di cemento. Che pavimento.

Il passaggio si divide in due e si riunisce in un altro tunnel identico ma perpendicolare. Dei cartelli indicano dei binari. Nel cuore della notte siamo riusciti ad arrivare in un posto ancora più pericoloso, una stazione dei treni. Torniamo subito indietro, un odoraccio graffiante ci avverte che stiamo superando il barbone di prima che non fa una piega nonostante il ticchettìo dei nostri piedi e il tunnel illuminato a giorno. Incrociamo un ragazzo dall’aria normale che però ci dice delle cose in modo scontroso. Gli rispondo che non so nulla e andiamo avanti. Quello si offende e dice ancora qualcosa. Quando mi giro è scomparso. Senza rumore di passi.

Tornando molto indietro a piedi troviamo finalmente un locale umano, popolato da umani. Il guardiano è gentile e chiama una ragazza per aiutarci. Le chiediamo dove sia questo ormai maledetto Gazgolder e lei fa orecchie da mercante dicendo che questo è l’Ikra e che c’è un DJ molto bravo e che se ci va possiamo pagare il biglietto ed entrare. Faccio orecchie da mercante anche io e le dico Ok, bello, ma lo sai dov’è il Gazgolder?

Ci fa cenno di seguirla e ci porta nella stessa via dimenticata da Dio ma non dalle pozzanghere, davanti a una porta nera, anonima, senza gente, chiusa. Anche lei sparisce. Strano vizio, stanotte, sparire.

Sul pianerottolo del palazzo una grande telecamera ci guarda in faccia, un citofono anonimo attira la nostra attenzione. Ormai cosa vuoi che succeda? Suono.

Silenzio. Poi la porta si apre e compaiono un uomo in camicia bianca con poco dietro una donna che dai contorni sembra bella ma che nel buio non riconosco. Ci chiede cosa vogliamo. Butto un’occhiata all’interno e gli chiedo “Eta Gazgolder?”, è qui la festa? Lui fa un cenno affermativo, così aggiungo “Ne rabotet?”, è chiusa? Stesso cenno. Lo saluto e decidiamo di andare lontanissimi da lì. Sul marciapiede opposto un miliziano chiacchiera e si intende con una ragazza prosperosa che potrebbe venire dal cordone di prima.

La prossima macchina ci deve portare al Mix, sono quasi le 4 del mattino. Non lo troviamo, così ci facciamo mollare in piazza Pushkin per dirigerci al Garage. Siamo in centro adesso. Questi non ne vogliono sapere di farci entrare senza la Carta Club (sto per impazzire, vorrei sbattergli in faccia la tessera dell’Auchan e dirgli “Servizi Segreti, Amico!” ma opto per le pive nel sacco). Ci spostiamo, lasciandoci dietro il Garage e un gruppetto di quindicenni alle prese con un sacchetto di colla.

La serata finisce al 30/7, un discobar fighetto tra Pushkinskaya e Chistie Prudy. Accanto a noi due ragazze hanno un atteggiamento molto, molto intimo, incorniciato da risatine isteriche. Poco dopo due ragazzi si avvicinano, si scambiano due battute con le ragazze e uno di loro salta fuori dalla finestra nel parchetto sottostante.

La serata finisce qui e torniamo a casa senza più il diavolo che ci passeggia accanto.

Non ho idea di come giudicare questa notte surreale.

mercoledì, agosto 23, 2006

Sulla Moscova


martedì, agosto 22, 2006

Foto dal pianeta


Il parchetto sotto casa mia. Un po' di contrasto con le case fatiscenti.


Il simpatico signore che ci ha dato un passaggio sulla sua auto giapponese. Qui sono alle prese con le foto della sua famiglia.


In riparazione.


Il fotografo col cappello strano, due post fa.




Atmosfera: biocompatibile. Presenza di vita: affermativo. Inizio procedura scansione antropologica.

Prima di partire mi avevano avvertito del mistero russo.

Mosca. Ma cos’è Mosca? Cosa c’è sotto? Chi sono i moscoviti? Cosa succede? Cosa ci dicevano di Mosca? Cosa ci dicono adesso?

Non abbiamo capito nulla, tra preconcetti e ideologie. Io stesso fatico a dare un senso a molti episodi, capendo lentamente che dare un senso non si può, o ancor meglio, non serve. Amen.

Una cosa è certa: il 27 luglio la mia navicella spaziale è atterrata sul pianeta Mosca, un astro di un sistema solare identico al nostro, che si è evoluto parallelamente al pianeta Terra. Mosca è la versione alternativa del mondo che conosco. C’è tutto, ma c’è in un modo differente. Gli esseri che abitano Mosca si sono sviluppati con le stesse esigenze che hanno mosso l’umanità terrestre, portandoli a creare artefatti che li soddisfino ugualmente. Un’automobile funziona esattamente come sulla Terra, solo che non è una Fiat, è una Lada, una Zhiguli o una Volga. Funziona lo stesso, forse meglio per certi versi, perché con due martellate torna a muoversi. Niente centralina elettronica. Diversa, ma la funzione è la stessa. Idem l’alfabeto, le scale mobili, le transenne, i film, i vestiti, gli aerei, i palazzi. Una versione diversa dell’idea platonica di ideale.

È difficile da spiegare. Bisogna immaginare un mondo parallelo. Tutto uguale nell’essenza ma diverso nella sua espressione.

Spiegare Mosca a chi non c’è stato. Duro lavoro. La vita qui è pragmatica, senza mezzi termini. A volte la cosa ti scombussola un minimo. Ho chiesto un White Russian in un bar e la risposta è stata un No secco, con tanto di testa scossa in segno di indignazione e fastidio. Questa è la testa sovietica, piena di regole e di burocrazia: il no è un no che previene pure un’eventuale insistenza da parte del petulante avventore.

La pazienza è l’arma migliore in questi casi.

Più in generale, se vuoi una cosa la paghi. Si può fare di tutto, credo che con qualche milione di dollari sia pure possibile fare un viaggio nello spazio. L’autostop, per esempio, lo paghi. Ma da noi chi ti tira su per portarti dal Duomo a piazza Firenze?

Puoi (devi) pagare anche la milizia se ti trova coi documenti non in ordine; girano voci che si possa pagarli anche per altro genere di cose…

Da un lato la vita pragmatica, senza mezzi termini, come dicevo. Dall’altra convenzioni sociali e beneducazione. Sono colpito dalla cavalleria degli uomini russi. La donna diventa una specie di dea da tenere in palmo di mano, a cui portare fiori (esistono i fiorai aperti 24 ore!) e da mantenere con cene e galanterie che da noi vengono viste quasi con sospetto. Poi, magari, la moglie la picchiano anche. Questo può avere un senso? Ha senso darglielo, un senso?

La cosa che ho provato, una volta partito da Milano, si spiega con una frase detta lentamente, scandendo bene le lettere sussurrando ed espirando: Fuori dai coglioni.

Da un lato c’è il mio rapporto conflittuale con una città che ormai reputo routine e provincialismo. La reputo come quegli iperattivi troppo sicuri di sé: gente che non si sa fermare per osservarsi nella propria completezza, gente che corre per non doversi mettere in discussione. Questa è Milano. Milano ha paura della propria chiusura. Poi, però, alla fine ci vivo e ci coltivo le mie amicizie più grandi.

Mosca non ha paura. Mosca è umanità in ogni angolo, nel bene e nel male. Facce tumefatte, odore di vomito e sudore. Barboni e ubriaconi. Poi donne perfette dal corpo curato, teste pettinate e dignità del povero che cerca di non mostrare la sua miseria. Facce da Lenin con occhialoni modello televisore anni Sessanta: insegnanti di marxismo in malora, mi piace credere.

Montagne di persone diversissime si passando accanto nelle stazioni della metropolitana. Tanta umanità che calpesta, tocca, respira, osserva, vive.

E il cartello Remont (riparazione) ovunque. Squadre di operai che lavorano come formiche senza alcuna norma anti-infortunio, possono costruire tutto a mani nude, tutto. Smontano e rimontano il motore della loro Lada per farne la revisione da soli. Per terra tracce di piloni segati via, chissà perché.

La soluzione russa si esplica così: sulla navicella spaziale americana si scopre il problema dell’impossibilità di scrivere con la biro in assenza di gravità. Dopo 2 anni e diversi milioni di dollari di investimenti per la ricerca, la Nasa inventa la penna che scrive nello spazio. In Russia la soluzione è stata a costo zero. L’ordine è di usare la matita.

Il pilone non lo smonto, lo sego via. Così agisce la gente.

Milano è digitale, Mosca è analogica. Fortemente analogica. Penso che sia questa la versione due della nostra realtà. Noi siamo passati al digitale, all’intoccabile, all’etereo, al servizio. Qui siamo nel prodotto, nella materia, nel palpabile.

A Milano abbiamo troppe sicurezze, troppe libertà senza sapere perché e cosa significhino. Qui l’erogazione è più lenta ma palpabile.

Qual è il metro per definire il proprio livello di libertà felicità? La certezza che le cose resteranno come sono è una garanzia di felicità o un inno all’indolenza? Qual è quella soglia fra essere umano (il curioso pensatore alla ricerca dell’Amore e della fusione col Tutto) e ingranaggio passivo della macchina odiosa?

Non ho una risposta, ma ci sono frammenti di essa per queste vie, dentro ognuna di queste misteriose persone con le quali forse non passerò mai abbastanza tempo. Sono sbarcato su di un pianeta alieno e tuttavia mi sono convinto che l’unico alieno, qui, sono io.

giovedì, agosto 17, 2006

Una sera come tante

È una luna d’oro. Piena e traslucida, brilla mentre torno in me. Ha i contorni netti. Ne osservo i particolari, piccole scaglie vetrose galleggiano sulla sua superficie poi svaniscono. Scuoto la mano ed altre emergono e scompaiono.

Dovrebbe essere un vodka e Red Bull, se ricordo bene. Mi ci inondo la bocca e la mia teoria si conferma, ma non capisco cosa ci faccia in mano mia. Distolgo lo sguardo e scansisco la sala. Le luci trasformano i clienti in infiniti arlecchini, alcuni dei quali fusi insieme senza un perché. Si piacciono un po’, penso.

Due ragazzi si picchiano con furia. Nessuno interviene, mi allontano ma cerco di tenere il contatto visivo con l’evento. La camicia di Alberto si macchia di sangue.

Accanto a me un gruppetto di neo-dandy gotici parlano divertiti davanti a un iBook, non vedo cosa questo c’entri con la discoteca. Siamo sul tetto di una casa, in effetti. Cosa c’entra. La musica è minimal e una ragazza si muove seguendo la parte più lenta del ritmo. Due ragazze dormono sulle amache. Ci sono delle amache qui, due ragazze che dormono. Il locale chiude quando esce l’ultimo cliente. Un ragazzo è seduto normalmente, la testa penzoloni. Dorme. Passa un fotografo che gli mette un cappello da cuoco in testa. Il cappello è di carta bianca. Il ragazzo non fa una piega. Il fotografo lo fotografa, poi con l’aiuto di un collega lo prendono e lo spostano per terra. Il ragazzo continua i suoi sogni sul pavimento di legno bianco. Nessuno se ne preoccupa.

Guardo nuovamente il mio bicchiere, è vuoto. Il tempo passa a modo suo qui. Ho difficoltà a focalizzarmi sulle cose, anche la cubista in topless mi lascia pigro.

La mia mano contiene adesso un altro bicchiere, è identico al primo, anche il sapore. Due ragazze si baciano.

Arrivano due buttafuori a prendere il ragazzo che dorme per terra. Spariscono nella tromba delle scale. Io non sento più la stanchezza. Qualcuno con della carta igienica rossa nel naso si lamenta. Una ragazza davanti a lui fuma nervosa, mentre qualcuno interrompe la mia panoramica con delle parole esotiche alle quali sorrido. Una ragazza mi sta prendendo per il bavero della giacca e mi guarda negli occhi, mi lascia, se ne va senza voltarsi. Il mio bicchiere si sta svuotando. Mai vista prima.

La luna è sempre più vicina alle case e la notte è fucsia, non più nera, sono le 5 e mezza. Alberto di avvicina ed erutta diversi vocaboli tra cui il nome di una discoteca che chiude alle 8.

Annuisco e bevo un po’ del ghiaccio rimasto nel mio bicchiere solitario. Scendiamo le scale e nel cortile c’è di nuovo il ragazzo del pavimento, accovacciato ed estenuato. Siede nel fango. Un miliziano apatico passa di lì, penso che ho il passaporto. Non sto più in piedi, ormai è il mio corpo a portare la mia mente. Mi sta venendo fame, sete non ne ho, sonno sì, curiosità sì. Buona domenica, città incredibile.

Il mastodonitco palazzo Kotelnichesky, c'entra perche' incredibile.

mercoledì, agosto 16, 2006

La Russia, postaccio postcomunista tetro e triste

Postaccio postcomunista
Tetro
Triste

M-hm.

sabato, agosto 12, 2006

Serata vodka

Sul tetto di uno studio d'architettura


Gruppetto di designer ed architetti sul tetto di uno studio.

venerdì, agosto 11, 2006

Druzhba vuol dire amicizia

Ecco a voi il formaggino sovietico per eccellenza. Ottimo se accompagnato da una speciale vodka al metanolo, pane nero e aringhe.


Druzhba, confezione grande.

Noi!

qui.

giovedì, agosto 10, 2006

Amore

Scambio di battute con una collega che si chiama Ljubov, Amore.
“Ti chiami amore! All you need is love! O meglio, all I need is love!”
“Si, ma l’Amore può essere costoso.”
Gelo.

L’insostenibile pesantezza dei pilmini

Oh a me piacciono. Sono come ravioli di carne bolliti e conditi con panna acida, la smetana. Ecco, un piatto di pilmini corrisponde a nutrirsi di una foca compresa della muta invernale e condirla con incudini di quelle che si vedono sui disegni della rivoluzione industriale, quelle classiche. Il bello dei pilmini, tuttavia, non è solo il sapore secondo me è mitico, ma è il fatto che sono come delle spugne. Li mangi e ti stanchi tanto, poi questi si espandono dentro di te. Come aver mangiato un ombrello chiuso che viene aperto da qualche manovratore invisibile. Te li tieni dentro per diverse ore, ogni tanto tornano su a salutarti e ad un tratto spariscono nel nulla.


Leggeri leggeri

Privacy

Questo palazzo mi fa spaccare dal ridere ogni volta che ci passo davanti. Un parallelepipedo grigio, una specie di monumento tombale all’estetica, perfettamente anonimo e deserto. La scritta “Caffè”. Ma dove? In che senso caffè? Lo vendono o se lo augurano? O si chiama così il palazzo, una bottega del caffè sovietica, amichevole luogo di incontro di tristi funzionari? Non c’è mai nessuno davanti, mai. Non c’è mai luce, non c’è niente. È un altro palazzo grigio. Ogni mattina ci passo davanti e mi stanco di più.

Privilegi d’un nuovo russo

Tra le poche cose pallose del mio periodo qui (una è stare tutto il giorno chiuso in uno show-room senza finestre, ribattezzato il bunker/il sarcofago/il sottomarino) c’è quella di occuparsi di design d’interni e quindi di andare sul posto a prendere delle misure fra persone che parlano per ore –in russo- del colore della tenda art déco (non farò solo questo fino a fine settembre, è certo).
Sono andato sulla Rublëvka, la strada che esce da Mosca e porta alle ville dei nuovi ricchi: cottage (no, sorry, kottedzhy) stupendi, kitschissimi, strapieni di arredamento di design costosissimo. Bello da vedere, soprattutto per le entrate delle cittadine riservate agli apparatchik del governo sovietico. Città come Gorki-2, dall’entrata che ricorda che siamo qui “nel nome di Lenin”. Una grossa stella rossa fregia l’ingresso oggi destinato ai paladini del capitalismo russo.
Il luogo comune insegna che molti dei nuovi russi hanno fatto soldi rubando, sfruttando conoscenze e transizione capitalista. Non è del tutto un luogo comune, poichè qui le conoscenze servono… ecco una chicca: La targa della foto reca le lettere M MR (in latino). Mi è stato spiegato che una targa così costa 5000$ e si ottiene se si è affiliati in qualche modo con gli organi esecutivi dello stato (polizia, servizi segreti, esercito). Questo cosa vuol dire? Vuol dire che la polizia non ti dice niente e ti fa il saluto militare.
É la macchina di una cliente.

La punteggiatura della mia vita


La “Metropolitana moscovita nel nome di V. I. Lenin” è composta di 10 linee più una circolare. Sullo schema vengono visualizzate come raggruppate stazioni diverse collegate da dei passaggi sotterranei pedonali (i perekhod). Il ritorno a casa come quello di ieri si può descrivere così:

Uscire dal ristorante e raggiungere la stazione di Okhotny Riad VASCA prendere il perekhod per la stazione Teatral’naya VASCA prendere la metro e scendere a Tverskaya per poi imbccare il perekhod per Chekhovskaya VASCA prendere il treno e scendere a Dmitrovskaya e salire le scale mobili VASCA (anche se si sta fermi) raggiungere casa VASCA.

lunedì, agosto 07, 2006

Orgoglio di quartiere



Scriviamolo a caratteri cubitali che siamo nel quartiere Timiriasevskij, il NOSTRO quartiere!

Un po’ di video per l’occhio avido


Un tratto di circonvallazione fra Duma e ex KGB


La piazza del palazzo della Lubyanka che ospitava il KGB, oggi ospita sempre i servizi segreti...


Scendere nelle profondita della metro moscovita.


Per prenderla, la metro

Oplà arrivano gli italiani e subito si mettono a rompere le palle

A parte che ieri siamo andati a cena con un collega al Bon, il ristorante disegnato da Philippe Starck. Un posto delirante di arredamenti matti e piatti raffinati, dai prezzi deliranti (per un borsch freddo ho speso troppo).

Stamattina ci fermiamo al Kofe Khaus (Coffee House) perché Alberto, ormai rinominato Alek e piegato dai morsi della fame di una casa col frigo vuoto, vuole un muffin.

Entriamo e due belle ragazze ci accolgono con delle parole piene di zeta che ci invitano a sederci. A quest’ora del mattino non ho parole in russo per nessuno, così indico il bancone con le brioche. Ci avviamo, ci accoglie una ragazza con un dente grigio e altre parole piene di zeta, al che Alberto sfodera un “tol’ko odin muffin”, solo un muffin. E lei, in inglese, okay sedetevi. Io rispondo che no, è da take-away.

A volte nei videogiochi devi compiere una certa azione per sbloccare una risposta dal computer: questo era uno di quei casi dove però la reazione corrisponde allo schema preconfigurato (se il personaggio da interpellare ti dice di aprire una porta e non lo fai ma parli di nuovo con lui, lui ti dirà di nuovo di aprire la porta, incurante del senso logico delle tue domande).

La risposta è stata, infatti: “Okay sedetevi.”

Ma sedetevi cosa! Mi avrebbe dato la stessa risposta se le avessi chiesto di falciarle la faccia col guanto di Nightmare.

Ci sediamo a due metri dal banco frigo dei muffin, basterebbe darcelo in mano. Invece il muffin sparisce nel retrobottega, aspetta un po’ lì, poi ritorna in una scatola di polietilenetereftalato rigida e grande almeno 5 volte il suo contenuto. Un cameriere prende un sacchetto di plastica bianco e ci mette dentro tutto, poi ricompare la cameriera, ci aspetta al bancone e ci dice: “Okay, now you can buy”.

???!?!

A ‘sto punto portami tutto al tavolo.

Paghiamo e andiamo via con uno strano senso di aver come appena ripreso i sensi. Abbiamo mandato in sbattimento tutto il Kofe Khaus per un cazzo di muffin.

Packaging intelligente. Vitelli.

mercoledì, agosto 02, 2006

VDV Day

Oggi e' il VDV-Day. Il VDV e' il corpo dei paracadutisti dell'esercito russo, che oggi celebra se stesso. Sono andato con un collega, per lavoro, proprio vicino alla zona dove si riuniscono tutti (Park Kultury). Da aver paura. Orde di muscolosi soldati ubriachi fradici (intorno alle 3 del pomeriggio) vestiti di pantaloni militatri e maglietta a righe blu e bianche scrosciano giu' per le scale mobili della metropolitana urlando "Slava VDV! Slava VDV!" (Gloria alla VDV). Il mio collega mi consiglia caldamente di non uscire stasera, soprattutto perche' di fronte a gente cosi' la polizia lascerebbe correre...
Per il resto mi sto annoiando oggi, comunque.

martedì, agosto 01, 2006

Domanda innocente

Vedo sulla guida, nel capitolo "Sud-est di Mosca" che vale la pena vedere Volgograd, teatro di una delle battaglie piu' dure della seconda guerra mondiale. Vorrei vedere il museo e qualche monumento, cosi' da ingenuo chiedo quanto sia lontana.
"Circa 3000 chilometri."