Dal Fronte Moscovita

mercoledì, settembre 27, 2006

пока, москва!

martedì, settembre 26, 2006

Attenzione, chiusura porte, prossima stazione: ma è davvero così importante?

Questi ultimi due giorni sono stati intensi, intensissimi. Tanto intensi che comincio già a sentirmi strano (strano: vocabolo interpretabile).

Alberto sta facendo la valigia, la casa comincia a sbiadirsi, io comincio a vibrare sempre di meno. Sto arrestando il sistema, sto richiudendo questa esperienza nel compartimento stagno, sto appendendo tutti questi ricordi a forma di quadro sul muro di quella stanza, quella in cui entrare quando ti serve conforto.

Non sono triste, sono in partenza. Sono uno che viaggia leggero, io. Si, raccontatela come vuoi, sei rovinato, caro mio. Adesso hai un altro paragone con Milano, sei destinato alla depressione. No, non è vero, non sono di quel tipo di uomini tristi. La tristezza è tristezza invece. Sei triste perché non sai adattarti e non corrispondi alla tua immagine di tè stesso. Sarai triste perché a Mosca eri il Rocket Man in esplorazione con scafandro e cordone di sicurezza, a Milano sarai addirittura di nuovo nell’utero. Mettiti in cuore in pace, Jan. No, non sono d’accordo e ti spiego perchè. Ci sono quelli tristi senza via d’uscita e quelli tristi a causa di una perdita di entusiasmo rispetto a cose che sono state smascherate proprio grazie alla possibilità di paragonarle ad a altro. Ma se paragono me stesso con me stesso, allora vedo una via d’uscita. Su questo posso darti ragione e smettere di fare l’avvocato del diavolo. Siamo tristi quando osserviamo cose mutevoli, ma la cosa più costante, oltre ai concetti eterni, siamo proprio noi stessi.

La metrò sta arrivando, spinge il vento dall’odore di gomma e metallo caldo. I capelli si scompigliano e il Guerlain della ragazza angelica e dagli occhi furbi vicino a me mi investe misto a quello della galleria. Il treno stride e frena ed escono i russi, entrano gli italiani. La ragazza del profumo resta sulla banchina e mi saluta, mi dice che si chiama Mosca. Devo entrare perché mi spingono dentro.

La voce nella metrò ci avverte che le porte si chiudono e quale sia la prossima fermata. La prossima fermata ci serve nelle cose mutevoli, nelle piccole organizzazioni della quotidianità. C’è un poster russo che conclude la serie di manifesti sovietici. Si tratta di una fotografia di una scritta in caviale nero su fondo di caviale rosso che dice: “E vissero felici e contenti”.

















E vissero felici e contenti.

lunedì, settembre 25, 2006

Ultimi eventi dal fronte

Dal conto alla rovescia dei giorni si è presto passati al conto alla rovescia delle ore, che sono precipitevolmente scese sotto le 100, poi sotto le 70 e ora ne mancano 24 all’abbandono delle nostra navicella spaziale in orbita su Mosca (l’appartamento in ulitsa Vucheticha al 4, ingresso 2, appartamento 20; un palazzetto anni ’50 di 5 piani).

Il nostro tassista è stato fermato da una Zhiguli della milizia in borghese. Era tutto in ordine, ma i cento rubli di mancia non glieli ha tolti nessuno. L’autista ha commentato: “Normalna”.

Stando qui si comincia ad accettare e lasciar correre un sacco di cose, il che è un ottimo esercizio, ma è facile dimenticare che esistono cose scorrette. Col fatto che non ci sia ancora una classe media definita, ci sono super-ricchi con tutto il loro universo di servizi e beni e i poveri con un altro tipo di mondo. Il punto d’incontro è una via di mezzo fra le cose di entrambi. Uno studente come me, per esempio, non va a cena al Pushkin (bellissimo, in centrissimo, carissimo direbbe Messner), cena a casa e compra al supermercato della gente normale, ma poi se esce la sera va per forza in posti dove poi un cocktail costa 10 euro ed entri solo se il feiskontrolshik ti vede in tiro (o ti conosce). Da noi è tutto più livellato: 9 ristoranti su 10 sono abbordabili e devi cercare quello davvero pregiato, mentre qui è il contrario. Per 9 ristoranti devi vendere un rene, e per trovare il localino da 10 euro devi avere una certa conoscenza della città e un buon lanternino.

Sono venuti a trovarmi i miei genitori. Mi sono trovato a fare gli onori di casa, a guidarli per Mosca e a leggere per loro i cartelli in cirillico. Mi sono trovato a contrattare n russo il prezzo del taxi che li riportasse in albergo e mi hanno anche riportato un po’ i piedi per terra riguardo alla Russia e a certi aspetti negativi che stavo perdendo di vista per amore di questo straordinario bardak (casino). Ecco, avere qui i genitori è stata un’esperienza di decontestualizzazione, un’opera d’arte ready-made.

Poi domenica sera ho perso il portafogli, con bancomat, patente e soldi. L’esperienza più comica, ma che avrebbe fatto impazzire uno appena arrivato è stata la denuncia che ho fatto alla milizia.

L’ufficio si trova vicino ad ulitsa Arbat, davanti c’è un agente con un kalashnikov che si guarda in giro. Ha le unghie sporche, ti fa pensare a un soldato più che ad un poliziotto che dovrebbe essere in contatto con la gente comune. Non mi spara, così entro.

Ci sono varie fotocopie di ricercati, tra cui una serie di Ceceni, appese al muro beige, poi due scalini mi portano ad una grossa vetrata con dietro l’accoglienza. Chiamiamola così.

C’è un agente con una divisa lisa e dall’aspetto poco pulito. Tondo, con una testa piccola e dei baffi appuntiti ma non simmetrici, ha degli occhi cattivi e le mani sporche anche lui. Mi guarda annoiato e io cerco di spiegarmi in russo, ma mi accorgo ben presto di non conoscere sufficienti parole.

Excursus:

Poco prima mi ero recato al Consolato italiano per chiedere cosa fare e mi ha accolto un carabiniere impassibile. Gli ho chiesto, dopo la sua indicazione di andare dalla milizia, come avrei potuto spiegare queste cose in russo e la sua geniale soluzione, che mi ha fatto decantare le lodi del consolato italiano a Mosca, è stata: “Si faccia capire”.

Testa di cazzo.

L’agente cattivo e liso non ha nemmeno una frazione di secondo dedicata alla pazienza, o non ha una parte del cervello dedicata a questo, così si alza e dai capelli gli spuntano corna, dai pantaloni una coda pelosa e rossa e prende in mano il tridente e viene da me. La porta si apre con una fumata di zolfo e la Carmina Burana che squarcia il silenzio pigro dell’ufficio ed arriva impetuoso l’Uomo più Scortese del Mondo.

Io, timido e speranzoso, cerco a gesti di spiegare che mi deve essere cascato dalla tasca il portafogli. Lui emette parole su parole, sempre più in fretta e sempre più rumorosamente e termina con prokhadite, che significa cammina. Lo show termina e lui sparisce dietro la porta. Io me ne vado con la mia coda tra le gambe e le orecchie abbassate. Dietro al vetro un collega pancione ma dall’aria di un caro zio sta giocando a Puzzle Bobble sul pc di servizio.

Telefono a una mia collega russa che fa l’interprete! Idea! Poi torno da quell’agente, che è l’Elemento Presente nell’Acqua Minerale, lo Stronzio, e gli passo la mia collega al telefono. Probabilmente lui non ha la facoltà di controllare la sua voce e urla anche con lei, spiega cose dalla prole non così lunghe e termina con diversi pazhalsta, prego. Lei arriverà un’ora dopo e mi compilerà la denuncia, in cirillico. Io non sono scosso, penso allo Stronzio Frustrato e al Carabiniere. Quest’ultimo –vabè.

Partirò mercoledì, quindi mi aiuteranno gli amici moscoviti con la denuncia. Nel frattempo non potrò guidare.

martedì, settembre 19, 2006

Ciao Vico





























Vico Magistretti 1921-2006.
Pian piano partono tutti e noi cosa facciamo?

Troppo bella, la voglio!

lunedì, settembre 18, 2006

Eccomi a fermare una macchina

Tutti hanno il loro Mausoleo, da?

C’è chi crede nella Ferrari, chi in Versace, chi crede nella Bibbia, chi crede nelle vacanze, chi crede nell’alcol, chi nelle sigarette, chi alla pubblicità, chi alle informazioni di seconda mano, chi a quelle dirette, chi nella guerra, chi nella pace, chi in sé stesso, chi nel prossimo, chi crede in internet, chi nella democrazia, chi nella “democrazia”, poi c’è chi crede che non ci sia nulla a cui credere là fuori. In ogni caso, un ideale di fondo c’è sempre.

Amen. Parola mia.

Questo era per introdurre la mia visita al Mausoleo di Lenin. Quattro giorni fa la temperatura era tornata sopra i 10 gradi, c’era un sole tiepido e mi sono svegliato presto. Lenin ti accoglie dalle 10 alle 13 e la Piazza Rossa è chiusa ai turisti. Alle 9:50 mi metto in coda, una coda ben diversa da quella di agosto, infatti in dieci minuti sorpasso il filtro di sicurezza. La Piazza è vuota, un po’ più in là quella piccola piramide rossa che aspettavo di visitare già da diversi anni.

Perché? Non per pellegrinaggio, forse più per una specie voyeurismo pop nel pianeta Mosca. Si tratta di vedere uno dei personaggi più controversi del secolo. Dittatore o Salvatore? Messia o Diavolo? Tutte le trame più avvincenti si basano su una lotta fra il bene ed il male e Lenin ha incarnato tutta questa lotta proprio in sé. Secondo gli altri.

All’entrata le guardie sono serie. Subito dentro la porta un guardiano indica con la testa di voltare a sinistra. Vedo scalini che scendono ma i miei occhi non si sono ancora abituati all’oscurità del Mausoleo. In fondo a pochi gradini vedo una divisa forse su un manichino, illuminata dall’alto. Faccio fatica a vedere i gradini neri nel buio e devo rallentare. Il manichino è in realtà un’altra guardia. Alla mia destra le scale scendono ancora, c’è silenzio e in fondo un altro soldato vigila. Arrivo a lui e c’è un passaggio sulla mia destra. Sarò sceso di qualche metro dall’ingresso e sto per entrare nella stanza del sarcofago. Gli occhi si stanno abituando lentamente ed entro nella sala. Una stanza in marmo nero, il soffitto è il negativo dei gradoni che si vedono all’esterno. Le pareti raffigurano una serie di bandiere rosse al vento, in pietra rosso sangue. Al centro della sala il sarcofago, alla mia destra delle scale salgono e portano a un piano rialzato quanto la bara di vetro. L’intento è di girarci intorno senza fermarsi. Lui è lì. Più basso di quanto pensassi, il viso serio, una mano aperta e una chiusa a pugno. Le punta delle dita più scure. Sembra una manichino, sembra ritoccato e verniciato.

Credevo che mi sarei emozionato o che sarei rimasto come lui –di stucco- alla vista del suo piccolo monumento. Invece niente. Lo vedo, lo scruto con la curiosità di chi va al museo di storia naturale, mi chiedo anche che cosa ci faccia lì e se avesse mai pensato di finirci. Cosa starà sognando? Ci guarda dall’alto e scuote la testa? Lenin, un altro monumento alla gloria di… cosa? Alla gloria di chissà che cosa, poi. Forse alla gloria delle Bentley che sfrecciano a 140 km/h sull’anello interno?

Cosa ci fa lì? Che legittimazione ha a stare lì? Prima di vederlo pesavo che rimuoverlo e seppellirlo sarebbe stato stupido e contrario, ora che ci penso, al diritto di essere guardoni. Ora che invece mi ha lasciato freddo mi rendo conto che forse è solo un altro di questi strani controsensi russi. Il Dio Lenin in quello che fu un paese ateo, in Dio Lenin che finge di essere Dio quando gli dei adesso sono i biglietti da “sto bucks”(cento dollari). Bah.

Controsensi come quando sono uscito dal Mausoleo per fare il giro sotto le mura del Cremlino, dove sono sepolte le personalità importanti dell’URSS. Ogni tomba ha la sua statua e i suoi fiori finti. Ma chi ha i fiori freschi? Quale sarebbe il più lieto controsenso? Esatto. I fiori freschi ce li hanno solo Stalin e Dzerzhinskij.

mercoledì, settembre 13, 2006

Per lo stoico

Prevedibile è: in Russia una parte della società ragiona con la testa sovietica, un’altra parte in modo molto più vicino ai canoni europei.

Il primo può farti veramente girare le balle. Sembra davvero che una conversazione debba fondarsi su domande e risposte predefinite, redatte a priori e stampate in un manuale tecnico per la conversazione sovietica, con quote, tempistiche, inflessioni previste. Il tutto incorniciato da bollo, timbro e firma. Per cortesia, egregio passante, ragioni come un computer. Grazie!

Il produkty è l’alimentari di vecchia foggia. Si entra in una stanza e si è circondati da vetrinette-frigo con i prodotti freschi. Dietro di esse la venditrice, dietro di lei gli scaffali con gli altri prodotti. Il self-service non è concepito e bisogna chiedere. Con precisione però.

Un giorno voglio comprare una cosa che non c’è, tipo un microscopio a scansione fotonica, così entro e mi esprimo nel mio stentato russo.

“Drastvuitse! Mikroskop s fotonov skansija yests’?”

”Shto?” risponde la commessa, aggrottando la fronte.

“Mi-mikroskop… fotonov skansija…” azzardo.

“Niet, niet! Niet! Nie yests’! Pachimu...“ Aggiunge altri vocaboli strani, lunghi e dall’atteggiamento solo vagamente bellico, facendomi capire che non ho letto il manuale per l’acquisto nei produkty. In più scuote la testa ed evita il contatto visivo. In pratica mi caccia verbalmente fuori dal suo contesto anacronistico come anomalia non prevista. Cacciarmi è come premere il Tasto Normalizzatore che rimette in armonia la situazione. Situazione in cui un uomo può entrare, comprare latte e pilmini e andarsene.

Esiste un Tasto Normalizzatore in Russia e ne ho fatto esperienza settimane fa. Mi sono trovato a fare la spesa senza aver controllato di avere soldi a sufficienza e mi sono trovato alla cassa questa situazione:

La commessa mi parla in russo con tono penetrante, come se volesse parlare ad una stanza insonorizzata dentro di me. Io continuo a far capire che deve parlare più lentamente perché non ci capisco una fava. Lei annuisce, è giovane e quindi sorride, poi continua a parlare in russo. Capisco solo Malchick (ragazzo). Le cose sono imbustate e io vorrei toglierle d’impiccio e metterle sul tavolo là vicino ma lei si volta e si rivolge al tizio della sicurezza, un cinesone alto e butterato, ma tutto sommato innocuo. Questo si volta verso gli armadietti (non si può entrare con borse e zaini nei supermercati), ne spinge indietro un blocco che rivela un tasto segreto sulla parete. Lo preme. Arriva una donna che prende un carrello e lo mette tra la cassa e noi, poi prende i sacchetti, li mette lì dentro e li cura. Azzardiamo a soluzione, cioè che io sto qua e Alberto va a prelevare. Soluzione accettata. La donna del carrello inserisce una chiave nel calcolatore di cassa e fa passare avanti il prossimo cliente, che ci sorride. Gli altri impassibili.

Dopo aver pagato i sacchetti ci vengono riconsegnati e l’atmosfera ritorna normale.

È difficile da spiegare, ma alcuni di questo Tasto ne hanno bisogno. Ieri sera dei suonatori ambulanti si sono messi a litigare per strada a voce alta. Poco dopo un flusso di persone ne annulla la vista e il rumore. Come mai? Qualcuno ha premuto il tasto. Tipo Men in Black, tipo The Truman Show. Succede spesso, è strano e robotico.

Concludo con l’esempio sovietico più caratteristico. Siamo andati alla banya, quella storica e più famosa, quindi anche più turistica. Inglese, zero. Vabbè non importa, dopo sei settimane il russo che parliamo ci basta. Ci indicano di portare le cose di valore al guardaroba, amministrato da un signore panzuto e anziano. Riempiamo la borsa della macchina fotografica di Alberto dei nostri telefonini e portafogli. Il guardarobiere è sempre più impaziente. Fa capire di muoversi. Gli facciamo capire che vorremmo una busta ma no, sempre più impaziente. Alla fine infiliamo dentro tutto, o meglio infilziamo dentro tutto, cercando di chiudere la lampo e il vecchietto non ne può più. Chiusa la borsa, Alberto gliela vuole dare, il vecchietto dice qualcosa, Alberto non capisce, il vecchietto gliela strappa di mano e la schiaccia sul bancone sbraitando. Poi sembra che stia aspettando che una colla inventata si solidifichi tra borsa e ripiano. Ci fa firmare con stizza.

Ma al ritorno, dopo due ore di banya rigenerante con ben pochi altri clienti torniamo al guardaroba con lo stesso signore che ci riconosce subito. Lo salutiamo indicandogli la borsa e lui ci dice di andare a prendere la ricevuta firmata. Va bene, giusto. Andiamo a prenderla e gliela diamo e lui… confronta le firme su ricevuta e copia carbone!

Regole!

Queste cose fastidiose succedono spesso ma vanno prese per un problema di chi si comporta così e bisogna cercare di lasciarsi scorrere addosso questi momenti. Un posto come la Russia non è consigliabile come primo viaggio fai-da-te, poiché questo insieme di apatia e burocrazia scontrosa possono davvero far impazzire di rabbia. Non bisogna rimanere scossi, ma perseverare con pazienza.

Tra la altre cose, molto spesso il tono sembra scontroso e arrabbiato, ma i contenuti proprio il contrario. Come dicevo qualche post fa, questo paese è un casino della madonna. A volte un videogame schematico, a volte un’avventura nel calore delle emozioni. A volte vorresti spaccare tutto, altre volte anche, ma poi capisci che così non ripari niente. Penso che la cosa principale che si impari qua è come raggiungere l’indipendenza emotiva da cose e persone, senza fermarsi –però, e qui viene la cosa difficile- al rimanerne distaccati.

martedì, settembre 12, 2006

Mare di facce, schiene, scarpe: un giro in metro', tanto per cambiare

lunedì, settembre 11, 2006

domenica, settembre 10, 2006

Piccoli episodi, ovvero la vita come una sequenza di operazioni e spostamento di beni e persone

Venerdì sera sono stato a casa a leggere e dormire e mi sento come riattivato dopo aver superato la banalizzazione del divertimento. Basta snobbare una sera che-non-si-può-non-uscire e i liquidi si ridistribuiscono, come in un frigorifero che deve riposare prima del primo utilizzo.

Oggi diverse persone hanno imboccato il binario che conduce alle cannucce usate, alle cicche di sigaretta, ai bicchieri, alle bottiglie vuote. In pratica, al pavimento. Nel pomeriggio un uomo color panna armato di sacchetto della spesa cercava invano di sorreggere il suo compagno bestemmiatore nonché personaggio privato della benedizione dell’equilibrio. Ma non cadeva, seguiva una traiettoria parabolica e atterrava pesantemente e col rumore di uno schiaffo sulle lastre di cemento.

Un poliziotto gli passa vicino, gli lancia un’occhiata indifferente e se ne va, le mani protette nelle tasche dal vento gelido della giornata. Poco dopo si avvicinano due colleghi per sorreggere l’incerto bestemmiatore; l’uomo color panna si preoccupa di rimettergli a posto il riporto unticcio; all’ennesima bestemmia il matershinnik (bestemmiatore) sparisce nel furgone della milizia. Per così poco. E io ero in giro senza passaporto, ops.

Di sera, vediamo questo Chesterfield. Benvenuti nel luogo comune. L’entrata costa 150 rubli e il posto è uno spazioso disco-pub rustico in legno scuro e consumato sul pavimento. Alcuni loschi personaggi giocano a biliardo. Il bancone è lunghissimo e mi accorgo quasi subito della scelta funzionale: una schiera di ragazze appese ad una sigaretta infinita ed appuntate sullo sgabello cercano lo sguardo di ogni avventore, il mio compreso. Lavorano.

Quando si ferma una macchina col tipico autostop moscovita è regola che se ne fermino diverse che si mettono in coda aspettando di contrattare con te il prezzo; allo stesso modo dopo pochi minuti mi accorgo con la coda dell’occhio di una bionda che mi fissa senza troppa timidezza. Dietro di lei, altre due ragazze in coda. Al bancone, un’altra, poi un’altra, poi un’altra, poi un Sandro Pertini imbocca il binario per il pavimento mentre georgiani e signori di mezza età mi fluttuano davanti.

Prendiamo una macchina? Come Ulisse saluto la città caduta: “Addio Troia fumante”.

Tappa: Opera. Forse ho imparato a gabbare i buttafuori, mi lancio attraverso la transenna senza indugio e nessuno mi blocca, tranne l’uomo col metal detector che mi palpa il passaporto.

In pista durante una sigla sovietica in versione house un ragazzo ben vestito abbraccia il pavimento, lasciandomi dei dubbi sul suo stato di coesione psico-fisica, davanti alla sua divertita fidanzata.

Davanti al guardaroba scena comica con una nuova conoscenza, che ci dice: ”Mosca mi piace mi piace tantissimo! La gente è simpatica ed educata e poi non è vero che i russi pensano solo alla moda e alle marche! Quanto mi piace l’Italia; mia madre è andata a Roma e le avevo descritto esattamente dove fosse il negozio di Dolce & Gabbana ma poi lei ha sbagliato e mi ha portato una cosa di Prada che non mi piace.” Poi parte in quarta in descrizioni dettagliate della sua vita familiare e sociale. “Avrò 2000-3000 amici, tutti di Mosca che sono così gentili; una volta siamo andati a trovare un amico che studia a –non ricordo il nome, ma è a 400km da Mosca- e la gente è così diversa. Eravamo con la mia macchina, la mia macchina, una BMW, una serie 5, 530” e aggiunge con nonchalance cercando di non interrompere il ritmo del monologo, “530 xi; ma non ci facevano superare perché siamo targati 97 (codice di Mosca) invece che 62.” Ha detto queste cose con un’ingenuità splendida. Era come se fosse ovvio informarmi dei dettagli dimenticabili della sua macchina.

Insomma, il frigo è acceso.

giovedì, settembre 07, 2006

Ieri

Ieri mi sono riparato dalla pioggia in un locale a fumare narghilè finchè la testa non mi scoppiava_l’orientale/uzbeko?/molto dell’est_sembra cinese_addetto alla nostra brace acquosa ha continuato a caricare per due ore_ci siamo spostati con la testa fumosa fino al Proekt Ogi_toh una specie di sottoscala_bene si spende poco_c’è un palco con una batteria ma nessuno suona_possibile musica dal vivo_che odore di sigaretta_siamo andati a Novokuznetskakaya a vedere la partita_siamo usciti con lo scazzo prima della fine_scazzo dato anche dall’assenza di commento ma dalla presenza di musica scazzante_abbiamo preso l’ultima metrò_la città è un paradosso_di giorno ti calpestano tanti ce ne sono di passazhiri_di notte non c’è nessuno_il tornello mangia e sputa il biglietto_gli altoparlanti nel pozzo obliquo che conduce ai binari è spento_di giorno sembra di essere in “1984”_adesso il silenzio se lo mangia il tarararararara pigro e ovattato delle scale mobili_colore predominante beige_la trincea accanto a me è la scala parallela ed è ferma_il manutentore ha i capelli ingrassati a dovere_inginocchiato_il pennello appoggiato sul bordo dei binari che salgono_ricalca la linea gialla che li distingue dalla carcassa della scala mobile_faccio il passo con rincorsa incorporata che mi lancia sulla terraferma_il binario deserto e di mattoni rossi_lampadari di bronzo_luce bianca_da lontano risuona un violino_ambulante o studente di conservatorio?_stride un treno in arrivo_è il mio_dentro un barbone dorme disteso_un vecchio legge l’Izvestija_altre facce sono immerse nei libri_uno di marketing_due facce immobili consumano la parete con lo sguardo laser_io li osservo e loro non mi vedono_in Italia mi vedrebbero_non sono in Italia.

Ieri sono poi uscito dalla metro_stanzja dmitrovskaya_a tverskaya 6 anni fa è scoppiata una bomba_morte ragazze della mia età_sesso e violenza a Mosca dice Starck_qui il piazzale fuori dalla metrò è buio e fradicio_1000 chioschi fatiscenti_una galleria in cui adesso non entrerei ma non mi spaventa_guarda quelle insegne_neon_improbabile casinò di periferia_non attira la mia attenzione ma solo il mio sguardo_l’altra insegna dice “24 chasa”_24 ore_è il nostro amico armeno_ormai ci salutiamo_lui è L’Uomo Senza Sonno_ci fermiamo per quella pietanza divina da 60 rubli_roba che il kebab torna a casa in lacrime che alla festa si è autoinvitato ma l’abbiamo scoperto_l’armeno ha 4 denti d’oro davanti e occhiali grandi_suda_non dorme mai_studia come farci lo shaurma più buono_si chiama shaurma la cosa buona che ci fa_un rotolo di pane armeno con carne verdure e salse marziane_sprigionano il potere di Greyskull in me_azzerano ogni carenza d’affetto_orgasmo tantrico_lo shaurma è la via alla pace nel mondo_delle macchine sfrecciano velocissime con vapore acqueo luccicante al traino_puzza di gasolio mal raffinato_è un mese che non vedo televisione tranne per la partita di stasera_ma in fondo chissenefrega_che pensino che abbiam vinto per culo_ce le avevano loro le maglie azzurre_ahah_sto semaforo è rosso da troppo_io passo_la milizia_non mi han visto o sembro russo e se ne fregano_la rampa delle scale è stata riverniciata una settimana fa_la vernice era velenosa e ora puzza di meno_cammino tutto il giorno e la parte che non sopporto proprio è farmi i 5 piani di scale_mi chiedono informazioni per strada se giro da solo_ho lo sguardo fisso qualche volta_sto diventando russo anche io_entro in casa_che stanchezza_i piatti da lav…

Una Rivoluzione estetica, prima di tutto

Sono due giorni di diserzione dal lavoro questi, volti al turismo intensivo.

Il periodo dell’Unione Sovietica mi ha sempre attratto da morire. Non per convinzioni politiche anacronistiche, sia chiaro, ma per quell’insieme di condizioni che hanno contribuito a costruire questo selvaggio mondo paraterrestre. Con le visite degli ultimi giorni, case-museo, pinacoteche, parchi e monumenti, comincio a vedere uno spiraglio al grande perché che mi perseguita.

Com’è iniziato l’esperimento bolscevico? Non sto parlando di fatti storici esterni, di odio per lo zar, di condizioni sociali valutabili. Ovvio che non sono prescindibili, ma cos’era la Russia dell’inizio del ventesimo secolo?

In tutti i posti che ho visitato non ho potuto non notare le fotografie esposte di personaggi dell’arte e della letteratura che si frequentavano. Prendiamo geni indiscussi come Chekhov, ritratto prima con Tolstoj, poi con Gogol’ e Gorkij, poi intento a collaborare con Stanislavskij (l’uomo che ha inventato il metodo usato per la recitazione da tutte le più grandi stelle del cinema). Quest’ultimo –nella sua casa sul Leonevtsky pereulok- fotografato circondato da allievi oggi indimenticabili e da artisti di cui non so trascrivere il nome. C’era una cooptazione di forze intellettuali e artistiche tutte nello stesso calderone; un entusiasmo creativo in costante esplosione ed espansione. Quando una valanga comincia a scendere, trasporta con sé anche tutta la neve che la circonda. L’energia che ho respirato nella casa di Stanislavskij, l’unica perfettamente lasciata nello stato originale, si può palpare. Sono salito sul piccolo palcoscenico privato da cui Stanislvaskij ha diretto le prove della prima di Evgenij Onegin e delle più importanti produzioni del Teatro d’Arte (e ci siamo concessi di testare l’acustica intonando un “O Sole Mio” davanti a un’estasiata custode). Si respira l’aria del primo Novecento, l’aria di questa grande concertazione (passatemi il termine prodiano) diventata valanga.

L’arte in Russia come elemento ubiquo della vita di tutti i giorni.

La situazione era come quella di una barca pronta a strambare. Mantieni la rotta della storia con la vela tutta aperta e il vento della società perfettamente in poppa; con una mano tiri verso di te il boma e basta la spinta di un dito perché la vela passi sull’altro lato dello scafo: rivoluzione!

Con una società composta da lavoratori incazzati, la vela gira in un momento. Si spiega così anche il fermento artistico e d’avanguardia della neonata Unione Sovietica (ma attenzione, prego: un’URSS già impegnata nello sterminio di massa dei dissidenti, già per ordine specifico di Lenin; impegnata a istruire quei contadini che non sapevano leggere né scrivere e quindi difficilmente furono impegnati con coscienza politica alla Rivoluzione; un’URSS che sterminava interi villaggi durante la Guerra civile ed affamava l’Ucraina resistente, ma anche) gestita praticamente da artisti agit-prop liberi di sperimentare e credere quindi, così, in nuovo corso dell’umanità da comunicare al prossimo in un circolo virtuoso senza fine.

Con l’inizio della censura e della visibilità della perversione di un potere autocratico (oh no, democratico!) molti artisti persero l’entusiasmo e un vero motivo di vita. Per citarne due, Gorki emigrò, Mayakovskij si sparò.

Ed ebbe inizio quello che secondo qualcuno fu il vero motivo del crollo dell’Unione Sovietica: il collasso estetico, l’assenza di bellezza, materiale per il nutrimento di un’anima che a rigor di logica non esiste. A rigor di logica, se è per questo, la Terra doveva essere immobile e piatta.

lunedì, settembre 04, 2006

Paragone in parole povere

Mosca è forse paragonabile alla New York anni ottanta di American Psycho.

domenica, settembre 03, 2006

Davanti al Bolshoj, stessa sera

859 Moskva!

Hanno chiuso al traffico tutte le strade principali, cioè quelle da almeno otto corsie. Hanno montato palcoscenici ovunque. Hanno fatto spettacoli per tutto il giorno. Moscoviti e quasi-moscoviti si sono riversati sulle strade a milioni, trasformando la città in un meraviglioso fiume umano multicolore, a volte talmente denso che solo a gomitate ci si poteva far largo. Una Mosca così, chi la vede mai?

Un pensiero che mi è passato per la testa è stato quello relativo al terrorismo. Uno striscione recitava “Beslan, Mosca è con te! No al terrorismo!” A Mosca buona parte degli ingressi nelle discoteche e tutti gli spazi culturali (musei, gallerie ecc…) hanno un filtro di sicurezza con metal detector. In ogni stazione della metropolitana c’è un uomo della milizia con un detector portatile. Per strada è facile vedere le forze del MVD (il Ministero dell’Interno), giovani ragazzi in divise grigie che fanno piuttosto paura (devo ammettere che assomigliano alle SA naziste), sempre pronti (eheh) a dar manforte quando servono. Ieri in città era invece particolarmente pieno di forze OMON, un braccio paramilitare creato da Gorbaciov e ampiamente utilizzato in Cecenia e in situazioni di crisi. La Rough Guide to Moscow spiega: “Sono vestiti in divise mimetiche verdi o blu e sono equipaggiati di kalashnikov o fucili a pompa; fanno paura ma è difficile che vengano a disturbare un turista a meno che non sia coinvolto in qualche genere di raid. Se vi capitasse una tale sfortuna, non resistete in alcun modo, nemmeno verbalmente.”

Ieri c’erano bus pieni di questi signori. Qualche volta ne ho visti a coppie davanti alle discoteche alla moda.

Il controllo ieri era decisamente serrato. Tutte le strade principali erano interrotte da filtri di controllo anche se non ho ancora davvero capito se i metal detector fossero ben calibrati o se i controlli fossero più che altro di esibizione, fatto sta che di polizia e soldati in giro ce n’erano davvero tanti.

E poi la soluzione russa: per sbarrare l’accesso alle auto dalle strade trasversali (soprattutto –immagino- l’accesso ad alta velocità di autobombe) nessuna barricata di cemento o quant’altro, no, ma i camion della pulizia strade, messi di traverso e comunque poi impiegati per ripristinare lo stato delle vie dopo i concerti. Questi Russi sono genialmente partici.

Comunque, la giornata è stata pittoresca. Uno dei palchi esibiva bambini allievi delle scuole di danza e di circo, altri concerti di musica russa che purtroppo non mi rendeva partecipe al delirio della folla aggrappata su lampioni e gazebi.

Forse le foto e i video esprimono di più di quanto io possa dire.

La serata è terminata al Propaganda, ormai una sorta di sicurezza moscovita per il sabato sera, tra un palestrato che vibrava invece di ballare (alternando a questo l’impulsivo lancio a caso dei suoi arti per aria) e un curioso personaggio che agitava solo il gomito mentre barcollava (fastidioso). Poi ce n’era un altro che sembrava fosse indeciso se andare a destra o a sinistra, finchè mi sono accorto che stava ballando anche lui.

Al ritorno l’autista era particolarmente orgoglioso della sua Zhiguli Van. “Auto italiana! Fiat! L’ho comprata 6 anni fa a 5000$. Presta attenzione: Se si parla di Zhiguli, non si parla di elettronica (e qui fa un cenno saccente ed ironico), no! Si parla di elettro…tecnica!” E da un’amorevole pacca sul cruscotto del suo macinino. Nello stesso momento ci stava supera una Lada un po’ più nuova (ma non si può mai dire) il cui motore stava urlando ratan-ratan-ratan-ratan-ratan. L’autista mi guarda, indica la Lada, ridacchia, fa il gesto dell’ago meccanico che cuce e dice solo “Singer”. Poi continua a canticchiare, mi porta sotto casa e mi cambia i soldi come vuole lui. Scemo io che non ce li avevo contati.












Il primo contatto con le forze di sicurezza.












Una delle barricate di design.


















Fortuna che l'ho fatta a casa.

























Verso la Duma.

























Davanti al Bolshoj, con vista sull'Hotel Metropol e sul palazzo della Lubyanka.



















Stesso colore ma era van la Zhiguli della serata.

venerdì, settembre 01, 2006

Animato scambio di punti di vista



San Pietroburgo.

Un mese se ne va, un altro inizia

Una divisione corazzata di operai dello show-room sta sbaraccando parte dei mobili esposti. Contro il muro attende una famiglia di lapidi di cartone, mobili in attesa di prendere il posto di quell’interno by Cassina. Oggi sono andato tardi al lavoro e mi trovo a cazzeggiare da due ore. Fuori fa freddo e una pioggerella lieve ma insistente ti bagna completamente prima che tu te ne accorga. In questi giorni sono un po’ sospeso nell’aria: credo che la fine di agosto coincida con il bivio se prendersi o no la sindrome russa. Questo è un altro dei grandi misteri e controsensi di questo paese. Inspiegabile. F dice che bisogna avere pazienza, una pazienza monolitica. Chi non ne ha deve imparare ad averne e chi ce l’ha già… deve imparare ad averne ancora di più. Sono leggermente scosso da questi stranissimi ritmi in costante contrasto; c’è la spinta a produrre e crescere e allo stesso tempo ci sono delle stasi infinite e maceranti.

Ecco, dopo tutti i tentativi che sto facendo per capire cosa diavolo stia succedendo in questo strano paese contenitore di cose (cose in qualsiasi senso immaginabile), dopo le specie di analisi e le domande che mi sto ponendo, dopo aver visto come lavorano e come si divertono, come flirtano e come si picchiano, come vivono e come muoiono (vabè quest’ultima la metto con licenza di blogger), ecco, adesso posso finalmente partire da un punto fermo: in un mese non si capisce un cazzo.

Ci sono tessuti sociali, storici e culturali che si sovrappongono e si intrecciano, che sono compatibili un po’, incompatibili spesso, ma coesistono. In modo pragmatico ed immediato eppur intinti in strani convenevoli e superstizioni (non esiste che passo davanti all’ufficio e ti saluto passando con un cenno, no, devo entrare e stringerti la mano, ma se sei donna basta un ciao senza contatti; non si fischia nei luoghi chiusi; le sigarette si accendono alle signore con la mano sinistra; le foto si fanno in pose plastiche e così via…).

Durante il laboratorio di sintesi del concept di tesi di laurea abbiamo (Alberto, Marzia e chi scrive) lavorato a distanza ad un’analisi della società russa, scoprendo gruppi sociali (più tribù in realtà) e tendenze di essi. Ottimo, il bello è che la ricerca era giusta, funziona. Ma poi questi gruppi interagiscono. Ma poi questi gruppi nascono in un terreno russo codificato e per quanto si emancipino, sono sempre frutto di un certo habitat.

Riassumendo: ho definito tutti i personaggi del libro russo, ma la trama è ancora un nodo gordiano indistinto ed incasinatissimo. Quel che mi fa incazzare è che non riesco ancora a fare l’Alessandro Magno che lo sbrogli con un minimo di diplomazia.




















Sempre loro, ma e' incredibile!